Il data breach è, in queste settimane, l’incubo principale di chiunque raccolga dati o, in generale, si stia occupando di sicurezza informatica. Già la locuzione, in sé, è minacciosa: breach richiama, ovviamene, una “breccia”, una falla di sicurezza, uno squarcio che causi la fuoriuscita di dati da realtà che, invece, li dovrebbero custodire con grande cura. C’è chi lo storpia in data “bridge”. Chi, d’estate, in data “beach”. Chi in data “break”. I più audaci, persino in data “bitch”. Ma è la “breccia”, ovviamente, quella che fa più paura. Il nostro Garante per la Privacy lo chiama, semplicemente, “violazione di dati”.
Il problema alla base dei data breach, oggi, è molto semplice da comprendere: prima o poi, capiteranno a tutti.
Non è un problema di “se”, quindi, ma di “quando”. Anche il motivo di questa affermazione è semplice, e non c’è bisogno di esperti per comprenderlo: è lo stesso che fu alla base della caduta dell’Impero romano. Allora, si pensava ad allargare i confini per conquistare il mondo esistente ma, poi, non si era più in grado di proteggerli dall’ingresso dei barbari.
Oggi, tutti corrono verso i big data, tutti si impegnano per accumulare informazioni che sono viste come “il nuovo petrolio” (che, poi, mi risulta che il petrolio non se la passi proprio benissimo: in pieno lockdown girava l’esempio, forse più attuale, di come i dati fossero il nuovo lievito per la pizza), ma le misure di sicurezza che vengono poste attorno ai dati, molto spesso, sono quelle di dieci anni fa. Mi vengono in mente almeno cinque motivi per cui, prima o poi, un data breach colpirà tutti. Grandi e piccoli. Privati e pubblici.
- La disattenzione alla “sicurezza by design”
- l’Internet delle Cose insicure
- Tutti i nostri dati più intimi sono ormai esposti. E fanno gola
- Pensiamo di mettere i nostri dati al sicuro, ma ne abbiamo sempre meno la certezza.
- Nel post-pandemia, gli investimenti in sicurezza informatica caleranno
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